Costi inerenti, ribaltato l'onere della prova


  Sentenza autenticamente rivoluzionaria quella con cui, recentemente, la Corte di Cassazione è intervenuta in tema di costi inerenti:  “quella di inerenza è una nozione pre-giuridica, di origine economica, legata all’idea del reddito come entità necessariamente calcolata al netto dei costi sostenuti per la sua produzione” e “pertanto, inerente è tutto ciò che – sul piano dei costi e delle spese –appartiene alla sfera dell’impresa, in quanto sostenuto nell’intento di fornire a quest’ultima un’utilità, anche in modo indiretto. A contrario, non è invece inerente all’impresa tutto ciò che si può ricondurre alla sfera personale o familiare dell’imprenditore, ovvero del socio o del terzo.         
       Se dal piano economico si passa, poi, a quello fiscale, da quanto suesposto discende che l’inerenza di un onere o di un costo all’impresa, in quanto si concreta in una componente negativa del reddito, si traduce – attraverso il meccanismo delle deduzioni – in un risparmio di imposta, giacché esso viene ad abbattere il reddito imponibile netto, in misura corrispondente all’entità della spesa o del costo deducibili.
Alla luce di tali rilievi, pertanto, può spiegarsi agevolmente perché – in applicazione del principio desumibile dalla norma di cui all’art. 2697 c.c. – l’onere della prova circa l’esistenza dei fatti che danno vita ad oneri e/o a costi deducibili, nonché in ordine al requisito dell’inerenza degli stessi all’attività professionale o d’impresa svolta, ex art. 109, co. 5 d.P.R. n. 917/86, ceda in via di principio, secondo il costante insegnamento di questa Corte a carico del contribuente che intenda avvalersene (cfr. Cass. 11205/07, 1709/07, 3305/09, 26851/09, 18930/11).
Per converso, sempre in tema di imposte sui redditi, è del pari incontrovertibile che incomba sull’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare, qualora la pretesa tributaria dedotta in giudizio derivi dall’attribuzione al contribuente di maggiori entrate, gli elementi o le circostanze, a suo avviso rivelatori dell’esistenza di un maggiore imponibile (Cass. 11205/07).
E tuttavia, siffatto riparto dell’onere della prova si attaglia, com’è del tutto evidente, a soli casi di dubbio collegamento della componente reddituale negativa con l’impresa, nei quali l’onere della prova – secondo quando detto – non può che fare carico al contribuente.
Viceversa, laddove si tratti delle spese strettamente necessarie alla produzione del reddito, o comunque fisiologicamente riconducibili alla sfera imprenditoriale (ad esempio, i costi per l’acquisto di materie prime, o di macchinari o strumenti indispensabili a produrre certi beni, o di manufatti necessari per la loro custodia) che, in quanto tali, possano ritenersi intrinsecamente inerenti all’attività di impresa, sarà l’amministrazione a dover provare l’inesistenza, nel caso specifico, del predetto nesso di inerenza.
In siffatta ipotesi, invero, a fronte della palese riconducibilità della spesa o del costo all’impresa, dovrà l’amministrazione – che intenda disconoscerne l’inerenza all’attività di impresa, al fine di inferirne la sussistenza di un maggior reddito tassabile in capo al contribuente – fornire la relativa dimostrazione in giudizio.
Nel medesimo ordine di concetti, questa Corte ha avuto modo più volte di operare un distinguo, ai fini del riparto dell’onere della prova, tra beni “normalmente necessari e strumentali” e beni “non necessari e strumentali”, ponendosi a carico del contribuente l’onere della prova dell’inerenza solo in questa seconda evenienza (cfr. Cass. 9265/95, 13478/01).
Ed invero, il requisito dell’inerenza, indispensabile ai fini della deducibilità dell’onere o del costo, si determina in relazione alla “funzione dei beni e dei servizi acquistati” dal contribuente (Cass. Cass. 10257/08), ossia della “ragione” della spesa riconosciuta e contabilizzata dall’imprenditore (Cass. 6650/06), in relazione alle quali è calibrato l’onere della prova, da porsi, cioè, a carico del contribuente, solo laddove la strumentalità della spesa all’attività di impresa non risulti di chiara evidenza in considerazione della sua stessa natura" (Corte Cass., Sez. V Civ., 27/04/2012, n. 6548).


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Locazioni, meglio mediare



La materia delle locazioni ad uso abitativo, in Italia, – riformata con la Legge 9 dicembre 1998, n. 431 – presenta una situazione normativa piuttosto frastagliata che talvolta può contribuire in modo determinante all’insorgere di controversie di carattere giuridico.
Specificatamente, nell’ampio mosaico di leggi e riforme succedutesi negli anni, risulta piuttosto nebulosa la regolamentazione del diritto di prelazione sugli immobili ad uso abitativo: tale istituto giuridico – quello della prelazione – fu storicamente previsto, all’interno del panorama giuridico italiano, per consentire ai cittadini locatari di immobili ad uso abitativo (quindi non proprietari degli stessi) di poter acquistare la casa locata al termine del contratto di locazione stessa.
La ratio della previsione normativa dell’istituto della prelazione – introdotta dalla legge n. 392/1978 – pare essere molto chiara nella sua sostanza “politica”: il legislatore prevedendo che alla scadenza del contratto di locazione ad uso abitativo il conduttore potesse esercitare il diritto di prelazione e quindi, a parità di condizioni economiche, essere preferito a terzi nel caso vendita dell’immobile, ha optato evidentemente per riconoscere una sorta privilegio in capo al locatore.
La logica di tale scelta legislativa può essere compendiata in un concetto: la legge, tramite il riconoscimento del diritto di prelazione per immobili ad uso abitativo, intendeva fornire uno strumento giuridico utile a consentire al conduttore di poter divenire – al termine del contratto di locazione ed in caso di vendita da parte del locatore dell’immobile stesso – proprietario dell’immobile locato.
Le successive riforme, in ambito di locazione ad uso abitativo, modificando il panorama giuridico – in particolare modo con la legge n. 431/1998 – hanno progressivamente distolto l’attenzione originaria del legislatore del 1978, fondata anzitutto sui diritti del conduttore, per concentrarsi sulle esigenze del “mercato immobiliare”: anche la giurisprudenza in materia, infatti, ha subito un’oscillazione considerevole in tema di prelazione. 
Attualmente vige un'interpretazione restrittiva e non del tutto condivisibile che vedrebbe "tramontare" il diritto di prelazione già alla seconda scadenza del contratto di locazione di immobile ad uso abitativo: tale interpretazione pare evidentemente comprimere in modo esagerato la tutela del conduttore e, in definitiva, la ratio stessa del concetto di prelazione.
Prudenza e correttezza vorrebbero che, nonostante la più recente giurisprudenza avalli di fatto un'interpretazione restrittiva in merito alla sussistenza del diritto di prelazione in materia di locazione immobiliare ad uso abitativo, oggi, si tendesse a riconoscere comunque - in caso di disdetta del contratto di locazione in vista della vendita dell'immobile - il diritto di prelazione al conduttore.
Tale impostazione tenderebbe ad evitare l'insorgere di spiacevoli controversie e, soprattutto, mirerebbe al riconoscimento sostanziale di un diritto, quello della prelazione, volto a consentire l'acquisto della casa da parte dell'inquilino conduttore. Non sempre tale riconoscimento in capo al conduttore avviene e così possono nascere controversie di difficile soluzione.
In una materia tanto controversa - dove il dettato sostanziale delle norme è stato nel tempo sostanzialmente modificato di segno dalla giurisprudenza - difficilmente possono esistere delle "certezze": onde evitare dunque inutili lungaggini processuali e dispendiose spese legali, sarebbe opportuno riuscire a "mediare" gli interessi in gioco, tra locatore e locatario, utilizzando i tradizionali canali della conciliazione stragiudiziale oppure della nuova mediazione civile.
Nell'uno come nell'altro caso, andando al di là del dettato asettico delle norme e della giurisprudenza si potrebbero contemperare le esigenze di entrambe le parti, eventualmente "monetizzando" la rinuncia a tentare di far valere i propri diritti. Insomma, in questo come in molteplici altri campi, la "mediazione" risulta essere la migliore soluzione.

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